martedì 28 giugno 2016

Vittorio Bodini da Metamor, 1967. BESA editrice










Canzone semplice dell’esser se stessi
L’edera mi dice: non sarai
mai edera. E il vento:
non sarai vento. E il mare:
non sarai mare.
I cenci, i fiumi, l’alba della sposa
mi dicono: non sarai cencio né fiume,
non sarai l’alba della sposa.
L’àncora, il quattro di quadri, il divano-letto
mi dicono: non sarai noi,
non lo sei mai stato.
E così il sogno, l’arco, la penisola,
la ragnatela, la macchina espresso.
Dice lo specchio:
come vuoi essere specchio
se non sai dare altro che la tua immagine?
Dicono le cose: cerca d’esser te stesso
senza di noi.
Risparmiaci il tuo amore.
Io fuggo da ogni cosa delicatamente.
Provo a esser solo. Trovo
la morte e la paura.

Jack Hirschman gli arcani








“Gli Arcani rappresentano, nella vasta produzione poetica di Jack Hirschman, un tassello importante e straordinario, la punta più avanzata della sua ricerca. Si tratta di lunghi componimenti nei quali la sua scrittura si esalta e si libera, nei quali confluiscono i suoi saperi, le sue sensibilità, le sue ossessioni e i suoi amori; essi fondono l’impegno politico e i temi sociali, sempre presenti nella sua poesia, con gli strumenti letterari acquisiti negli anni; essi miscelano sapientemente la vita di strada con la storia, gli incontri reali o immaginari con la solennità del sacro, l’eros sempre presente nei suoi versi con l’ossessione dell’olocausto e degli orrori del fascismo vecchio e nuovo.”

Paul Éluard, pseudonimo di Eugène Émile Paul Grindel (Saint-Denis, 1895 – Charenton-le-Pont, 1952),









Paul Éluard, pseudonimo di Eugène Émile Paul Grindel (Saint-Denis, 1895 – Charenton-le-Pont, 1952), poeta francese, tra i maggiori esponenti del movimento surrealista.
Risale al 1916 la raccolta di versi Le devoir, che ripubblica ampliata nel 1918 con il titolo Le devoir et l'inquiétude e i Poèmes pour la paix.
Nel 1919 partecipa alla vita del movimento dadaista e stringe rapporti di amicizia con i rappresentanti della contestazione artistica francese, quali Paulhan, Aragon, Breton, Soupault e Tzara.
Collabora intanto a diverse riviste d'avanguardia e dirige egli stesso la significativa rivista Provèrbe.
Nel 1920 pubblica Les animaux et leurs hommes, les hommes et leurs animaux, nel 1921 Les nécessités de la vie et les conséquences des réves, nel 1922 Répétitions e Les malheurs des immortels.
Nel 1923 il nascente surrealismo si contrappone al senescente dadaismo, ed Éluard passa, insieme ad Aragon, Péret e Breton, al nuovo movimento.
L'animatore del surrealismo è André Breton e a lui Éluard dedica, nel 1924, Mourir de ne pas mourir.

Tutte le donne felici hanno
Ritrovato il loro marito egli torna dal sole
Tanto è il calore che porta.
Ride e piano saluta
Prima di dare un bacio alla sua meraviglia.

II
Splendida, il seno teso leggermente,
Santa mia donna, sei mia più di quando
Con lui, e lui e lui e lui e lui,
Io reggevo un fucile, un bidone - la vita!

VII
Per molto tempo ho avuto un volto inutile
Ma ora
Ho un volto per essere amato
Un volto per essere felice.

X
Sogno di tutte le belle
Che di notte vanno in giro,
Lente e calme,
Con la luna che viaggia.

XI
Tutto il fiore dei frutti m'illumina il giardino,
Gli alberi di bellezza e gli alberi da frutta
E io lavoro e sono solo nel mio giardino,
E il Sole cupo fuoco arde sulle mie mani.

Jean de La Fontaine (Da Fables de La Fontaine II°, 1678)










Due piccioni si amavano di tenero amore.
Uno dei due, annoiandosi della vita di casa,
fu tanto poco furbo da intraprendere
un viaggio in paesi lontani.
L’altro gli disse: «Che vuoi fare?
Vuoi abbandonare tuo fratello?
L’assenza è il più grande dei mali:
a te, crudele, forse non sembra. Possano la fatica,
i pericoli, le difficoltà del viaggio
farti cambiare idea!
Tanto la stagione si inoltra.
Aspetta lo Zefiro. Perché questa premura? Un corvo
poco fa ha annunciato sventura.
Io immaginerò che farai incontri funesti,
come falchi, reti. Ahimè, dirò, piangerà:
mio fratello non ha già tutto ciò che vuole,
buon cibo, buon alloggio, e il resto?»
Questi discorsi fecero vacillare il cuore
del nostro imprudente viaggiatore;
ma il desiderio di vedersi attorno e l’umore inquieto
alfine lo spinsero a partire. Disse: «Non piangere:
Tre giorni al massimo, faranno il mio animo soddisfatto;
Tornerò e ti racconterò puntualmente
le mie avventure, fratello mio.
Ti svagherò: quelli che non vedono niente
non hanno niente da raccontare. Il racconto del mio viaggio
per te sarà un estremo piacere.
Dirò: sono stato là; la tal cosa mi è piaciuta;
e sarà come se ci fossi stato tu stesso.»
A queste parole, piangendo, essi di dissero addio.
Il viaggiatore si allontana; ed ecco che un uragano
lo obbliga a cercare riparo in qualche luogo.
Lo trova in un albero solitario, mentre l’uragano
investe il piccione nonostante la protezione delle foglie.
Ritornato il sereno, egli riparte con coraggio,
asciugato al meglio il suo corpo bagnato di pioggia.
In un campo a distanza vede del frumento sparso,
e vicino vede un piccione; gli fa invidia;
vi vola accanto, ed è catturato; questo frumento copriva un laccio,
si trattava di una trappola.
Il laccio era logoro! usando ali,
piedi e becco, l’uccello finalmente lo rompe.
Ci rimette solo qualche piuma; ma un destino peggiore
gli si avvicina: un avvoltoio dagli artigli crudeli
vede il nostro sfortunato, il quale, trascinando lo spago
e i frammenti del laccio che l’aveva catturato,
sembrava un prigioniero fuggito.
L’avvoltoio stava per assalirlo, quando dalle nubi
compare a sua volta un’aquila con le ali distese.
Il piccione approfittando della lotta fra i due rapaci,
se ne vola via e atterra nelle vicinanze di una stamberga,
pensando che, per questa volta, le sue disgrazie
siano finite con questa avventura;
ma un briccone di un bambino, questa età è senza pietà,
prende la sua fionda e colpisce 
il volatile sfortunato,
che, maledicendo la sua curiosità,
trascinando l’ala, e strascicando i piedi,
mezzo morto e mezzo zoppo,
se ne torna dritto al suo alloggio.
Bene o male vi ci arriva
senza altre avventure spiacevoli.
Ecco, i nostri amici si ricongiungono; e lascio immaginare
quanto grande sia il piacere che ripaga le loro pene.
Innamorati, felici innamorati, volete viaggiare?
Qualunque cosa ci sia attorno a voi,
siate l’uno per l’altro un mondo sempre bello,
sempre diverso, sempre nuovo;
Siate tutto per voi, e non pensate ad altro;
Io ho amato qualche volta! e non avrei allora
scambiato il Louvre e i suoi tesori,
e il firmamento e la volta celeste, per i boschi, e i luoghi
onorati dai passi, e rischiarati dagli occhi
dell’amabile e giovane pastorella,
per la quale, sotto il figlio di Citera,
io servivo, impegnato dai miei primi giuramenti.
Ahimé! Quando rivivrò simili momenti?
Occorre che simili cose così dolci e così affascinanti
mi lascino vivere nonostante l’inquietudine della mia anima?
Ah! se il mio cuore osasse ancora infiammarsi!
Non sentirò mai più d’una magia il filo che m’arresta?
Ho oltrepassato il tempo dell’amore?

NAZIM HIKMET 1930










Può darsi che io
non arrivi
a un certo giorno,
può darsi
che penzolando a un capo del ponte
lascerò cadere la mia ombra sull'asfalto...
E può darsi
che, anche dopo
quel certo giorno,
io sia ancora in vita
irsuto di bianco pelo...
Se sarò vivo
dopo quel certo giorno,
appoggiandomi ai muri
per la periferia della città
suonerò il violino e canterò una canzone
ai vecchi, intorno a me,
che, come me, saranno
sopravvissuti all'ultima battaglia.
E dovunque volgerò l'occhio,
tutto sarà allegro, splendido,
e la sera stupenda,
e ascolterò il passo di gente nuova
che intona nuove canzoni.

Nazim Hikmet








Come è bello pensare a te tra le grida della morte e della vittoria, pensare a te quando si è in prigione e quando si è passata la quarantina. Com’è bello pensare a te: ecco una mano dimenticata su una stoffa azzurra, ed ecco, tra i tuoi capelli, la morbidezza fiera della mia terra di Istanbul. E’ come un altro uomo, in me, la felicità di amarti. Com’è bello pensare a te: scrivere per te, guardarti disteso sulla schiena, nella mia cella. Una parola che tu hai detto quel giorno, in quel luogo, e non una parola in sè, ma quel modo che aveva di contenere tutto un mondo. Com’è bello pensare a te: voglio ancora scolpire per te qualcosa, costruire uno scrigno, un anello, tessere tre metri di seta. E di colpo, alzandomi in piedi, andare a incollarmi alle sbarre della finestra, e gridare al cielo azzurro della libertà tutto quanto ho scritto per te.

Madre e figlio profughi di Chinua Achebe(poeta africano)









Nessuna Madonna con Bambino poteva eguagliare
quell’immagine di tenerezza di madre
per un bambino che presto doveva dimenticare.

L’aria era pesante di odori
di diarrea di bambini non lavati
con costole slavate e sederi prosciugati
in lotta con passi affaticati dietro vuoti ventri rigonfi.
Molte lì hanno da tempo cessato
di preoccuparsi, ma non quella madre,
che manteneva tra i denti un sorriso spettrale,
e negli occhi il fantasma dell’orgoglio materno
mentre gli pettinava i capelli rugginosi
rimasti sul cranio, e poi,
solo negli occhi cantando, iniziò
a ripartirgli adagio… In un’altra vita
questo sarebbe stato un piccolo atto quotidiano
privo d’importanza tra colazione e scuola:
ora lei lo faceva come ponendo fiori
sulla minuscola tomba di un bambino.

da Attento ‘Soul Brother’! (Jaca book, 1995), trad. it R. Mussapi, T. Sorace Maresca

lunedì 27 giugno 2016

Antonia Pozzi – Voce sublime del Novecento – Anima inquieta, vibrante di poesia Pubblicato da RedazioneCULTURA2 giugno 2015








La breve vita di Antonia Pozzi, velata di malinconia e sottile inquietudine, resta avvolta nel mistero di un tormento che l’ha accerchiata, proiettata nei meandri di un ‘male di vivere’ ineluttabile, fino a condurla alla desolazione di una scelta estrema, una fine tragica, che l’ha per sempre allontanata dalle controverse scene della sua travagliata esistenza. Aveva soltanto 26 anni, Antonia, quando concluse che il mondo non aveva più niente da offrirle; ma alle spalle si lasciava una vita intensissima, esaltata da un animo estremamente sensibile, che sapeva captare con i suoi potenti ‘sensori’, ogni messaggio di luce e oscurità che provenisse dalle esperienze del quotidiano. La poesia, tumulto intimo che le apriva vastissimi orizzonti davanti allo sguardo attento e fisso oltre la superficie delle cose, era il suo rifugio e il luogo dell’anima prediletto, nel quale amava riversare ogni impulso diretto di una coscienza che manifestò fin da giovanissima, gli umori vivaci di un’intelligenza non comune.
Proveniva da una famiglia dell’alta borghesia milanese, l’agiatezza aveva peraltro radici profonde, tutti i suoi avi erano persone colte e facoltose, e in questo clima già favorevole trovò la via più naturale per la sua formazione, in gran parte dedita agli studi e alla ricerca, alla scoperta dei grandi valori culturali legati al suo tempo e al passato. Aveva seguito studi classici, frequentando ginnasio e liceo in un istituto superiore della città, seguita da insegnanti che avevano stimolato le sue innate inclinazioni verso la letteratura, incentivato la curiosità e la passione per la cultura, la filologia e l’estetica, canali privilegiati che le permisero di conseguire, ancora giovanissima, e col massimo dei voti, la laurea in Lettere e Filosofia. Aveva 23 anni, e un grande desiderio di scoprire i lati più inediti dell’umanità, aprire nuove prospettive davanti a sé, raggiungere l’essenza delle cose con lo speciale scandaglio di un intuito sopraffino. Sempre accompagnata da uno stato malinconico, che le camminava a fianco come un’ombra discreta; più acuto si rivelava il suo sentire, più fatale il suo presentire. Prerogative personali che rendevano peculiari gli stati d’animo, lo proiettavano verso la profondità dell’essere e della natura che le stava intorno, che lei cercava quasi spasmodicamente, fino alle verità più recondite, allontanandosi anche per mesi dall’accogliente e sontuosa casa milanese, per vivere in un luogo di soggiorno montano, ai piedi delle Alpi; questo piccolo centro era Pasturo, citato anche dal Manzoni ne ‘I promessi sposi’. Cercava con tutte le sue forze una simbiosi con la montagna, ne trasponeva lo spirito in versi bellissimi, ai quali affidava tutti gli spasimi dei suoi conflitti più intimi, mentre la vita, lentamente, diventava una rima aliena, non in armonia con quel subbuglio interiore che l’affliggeva senza scampo. Il suo era un istinto acuto che apriva tunnel misteriosi anche davanti alla gente e al mondo che le stava intorno, non le permetteva di soffermarsi nei prospetti di un lungo disegno di vita, e di progetti che delineassero una linea sicura per l’avvenire: era un procedere legato all’evasione, alla fuga.
Naufraghi sugli scogli,
ognuno narra
a sè solo – la storia
di una dolce casa
perduta,
sè solo ascolta
parlare forte
sul deserto pianto
del mare -
Triste orto abbandonato l’anima
si cinge di selvagge siepi
di amori:
morire è questo
ricoprirsi di rovi
nati in noi.
Antonia percepiva tutto ciò che alla gente comune passava accanto come aria informe, davanti a lei fluttuavano onde di sensazioni che rendevano eclettico e fertilissimo il pensiero, e tutto questo con naturalezza estrema. Anche l’impulso di cercare nella natura un’interlocutrice che mediasse tra il suo male sottile e il desiderio di luce, era un indice di quel tentativo vano di riportare equilibrio tra i pilastri fondanti di un’esistenza che aveva necessità di un assetto più solido, certezze che le permettessero di lasciare quel suo andare nel sottosuolo. Solo la Poesia, dopo il liceo, diventò ragione di vita, le permise di unire gli strati mobili e precari del suo modo d’essere, non fu ponte di transito per oltrepassare il confine di quel malessere divorante, ma comunque ‘riparo sotto roccia’, confidente sicura e consolante, acqua trasparente che portava sempre in altre sponde la sublimazione di un procedere senza ritorno; paradosso tra l’aspirazione alla normalità e l’arresa davanti al senso del nulla che incombeva.
Neppure l’amore, quello vero e autentico, incontrato al liceo, via non convenzionale, certo non affine alle aspettative della casa austera e piena di rigore borghese dalla quale proveniva, aveva dato un senso alla sua esistenza. O forse glielo aveva dato in maniera così netta e profonda, da lasciare tutto il resto in penombra, privo di attrattive. Un amore sfortunato, nato a scuola, nell’esiguo spazio che separa la cattedra dai banchi. E non era preparata, forse, ad una sfida così potente e travolgente; ad un sentimento che s’impose con irruenza, e di lei si prese anche la ragione. Fu pertanto un amore contrastato dalla famiglia, in particolare dal padre, che non mostrò mai disponibilità o comprensione verso la felicità di Antonia, e che di tutto fece per allontanarla da quel professore di Greco giudicato scellerato, ma affascinante agli occhi di lei, semplicemente perché rappresentava i grandi valori nei quali credeva. Totale affinità e simbiosi tra loro, tali da aprire brecce davanti all’impossibile, far scorrere binari d’intesa anche nell’aria che respiravano quando erano lontani. Un Amore speciale, che insidiava tutti i cliché delle convenzioni nelle quali la poetessa viveva, e ai quali suo malgrado era affettivamente legata, dato che non ebbe mai il coraggio di recidere quelle redini e di fare una scelta determinante e chiara, che la realizzasse davvero dando un senso compiuto alla sua esistenza. Antonia non aveva forse una personalità incline agli strappi, quelli che pongono fine al tormento e alle insicurezze, e che sono talvolta gli alleati più fedeli della felicità alla quale si aspira. E’ probabile che lei stessa, comprendendo gli opportunismi della sua famiglia, che in fin dei conti condannavano l’amore per il professore di greco, lo immolavano senza remore né scrupoli alla dignità della loro condizione, abbia cercato di dimenticare. Ma in realtà questi tentativi consci o inconsci non riuscirono a portare serenità nella sua esistenza, si traspose come uno spettro in altre inutili esperienze, le visse accanto come un sogno mancato, le chiese conto di ogni strategia volta a inventare un cielo nuovo davanti a sé, attraverso lontananze che in fondo, viaggiavano con lei, portando fin nelle ossa quelle emozioni represse.
Scelte fatali, che rimandano ad un’altra sfortunata poetessa americana, Sylvia Plath, non a caso anche lei, morta suicida in giovane età, e a loro, come un’irreale cordata, si unisce Anne Saxton, anch’essa poetessa, anch’essa morta suicida in giovane età.
Difficile dire che quel sentimento contrastato, causa di tanto dolore per Antonia Pozzi, sia stato la causa ‘scatenante’ della tragica fine, vi era un substrato psicologico di fondo che la rendevano affine alle inconsistenze e insidie del vissuto. In definitiva tutti questi processi avvenivano in uno scenario intimo vulnerabile ed esposto ai cataclismi della sorte. Aveva solo gli scarponi di montagna che le permettevano di allontanarsi dai rituali della sua vita borghese, per cercare le ragioni ultime delle cose, tra i crinali innevati del mondo che tanto amava, la montagna. Dialogava con una natura che sapeva rispondere soltanto con la sua bellezza e il suo fascino, ma che nonostante queste incommensurabili grandezze, non coprivano il freddo e la desolazione che aveva nel cuore.
La poesia veicolava i suoi stati d’animo, nulla celava dei suoi umori e dell’anima fradicia di dolore, tutto portava a valle, e convogliava nella diga della parola, della quale lei, pur giovanissima, era maestra. La poesia l’avvolgeva come una coperta calda e rassicurante, era un’interlocutrice che sapeva sollevarla dal suolo e portarla in alto, più in alto delle vette che lei raggiungeva e talvolta scalava, amante com’era dell’ambiente alpestre nel quale trascorreva lunghi periodi di tempo, quasi in assoluta solitudine. Dialogico era quel silenzio, sapeva cogliere le voci nascoste dei misteri che attraversano le cose in apparenza inanimate, il suo pensiero era un potentissimo scandaglio, che amava andarsene per i fatti suoi. In fondo Antonia Pozzi aveva uno spirito libero, anche se le mancava l’intraprendenza e il coraggio per una totale affermazione del proprio sé. E’ stata una voce autorevole della letteratura del Novecento, i suoi versi non sono linee trasversali o sotto traccia di un animo triste, immalinconito dalle amare vicissitudini del proprio vissuto, ma linee chiare di un talento nato, vissuto e alimentato dalle attitudini di una mente vocata verso questo tipo di Arte. E’ evidente la spontaneità espressiva e semantica del suo comporre, frutto di una ricerca interiore che ha seguito un preciso impulso naturale, e per questo ogni singola composizione esprime il pregio dell’arte autentica. Purtroppo resta il rimpianto della sua precoce scomparsa, di quella sua fretta d’andare, senza svelare esattamente i contorni drammatici di quel congedo inaspettato, che ha lasciato tutti attoniti, compresi i suoi compagni di viaggio nell’arte del comporre in versi, Vittorio Sereni, per esempio, che conobbe durante gli anni degli studi universitari, la stimò e le fu amico in momenti difficili.
Antonia ci ha lasciato una preziosa eredità di testi poetici e scritti di carattere personale, che il padre tentò perfino di contraffare dopo la sua scomparsa, ma le cui copie autentiche furono poi recuperate anche grazie agli studi universitari di una religiosa che scrisse la tesi proprio sulla poetessa, ed ebbe accesso a tutte le carte conservate nelle biblioteche milanesi. Mi piace chiudere le personali riflessioni su questo genio poco conosciuto della poesia italiana, con le sue parole emblematiche, tratte dal folto epistolario:
“La poesia ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci romba nell’anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell’arte, così come sfociano i fiumi nella vastità celeste del mare. La poesia è una catarsi del dolore, come l’immensità della morte è una catarsi di vita. Quando tutto, ove siamo, è buio ed ogni cosa duole e l’anima penosamente sfiorisce, allora veramente ci sembra che ci sia donato da Dio chi sa sciogliere in canto il nodo delle lacrime e sa dire quello che a noi grida, imprigionato, nel cuore…”.
(Virginia Murru)

Philippe Soupault. sei poesie surrealiste









Un autore ancora poco noto e ancor meno tradotto in maniera sistematica in italiano, qui nella versione del poeta Valerio Magrelli.
«Non so cosa sarei diventato, se non avessi conosciuto la poesia. Le ho dedicato la vita. Questa parola, poesia, che per qualcuno è solo causa di fraintendimenti, per me rappresenta un mondo in cui posso finalmente capire perché sono nato. Una parola, un barlume, un suono: ecco quanto basta per ritrovarmi in un universo che mi appartiene, a cui appartengo e con cui, se mi è consentito dirlo, faccio corpo.» Così, e altre volte similmente, Philippe Soupault sottolinea la necessità di sapersi attraverso la poesia, di affermare la naturale disposizione a «sentire poeticamente» il mondo, al di fuori della «quotidianità» che stempera il gusto di cogliere le seduzioni infinite e infinitesime dell'esistenza. (...) Protagonista dell'«Azione Dada» («Il solo a non averne disperato», secondo André Breton), Soupault è tra i promotori dell'attività del Gruppo Surrealista. Breton ne precisa il contributo: «Con un senso acuto del moderno, tale da propiziare il totale affrancamento sia dei modi di pensare che dei modi di dire convenzionali, al fine di promuovere modi di sentire e di dire specificamente nuovi e la cui ricerca implica, per definizione, il massimo di avventura». Con Breton e Aragon fonda, nel '19, la rivista «Littérature» che nell'ottobre dello stesso anno pubblica alcuni frammenti di Les Champs Magnétiques. L'opera, scritta in collaborazione con Breton, inaugura praticamente la stagione della «scrittura automatica». Legato a Breton anche da «La speranza della rivoluzione russa, la disperazione, l'amicizia di Apollinaire, il fascino esercitato da Rimbaud e la scoperta di Lautréamont», Soupault mantiene comunque un proprio specifico e, pur continuando a firmare (fino al'25) la maggior parte dei manifesti surrealisti, matura il progressivo distacco che causa la « scomunica» di Breton (nel '26) e l'attacco contenuto nel Secondo Manifesto del Surrealismo, in cui viene definito «infamia totale». Soupault continua però a sentirsi surrealista, in quanto il surrealismo rimane anche e soprattutto modo di vivere. Nell'agosto del '74 conferma in una intervista: «Credo che dopo Les Champs Magnétiques non avrei potuto smettere di essere surrealista. Ero stato definitivamente segnato da quella esperienza. Non sì è smesso di codificare quella che era una tappa nella scoperta di una possibilità di "cambiare la vita", ma per me il surrealismo non è mai stato una scuola, un movimento o una chiesa. Dopo il primo libro surrealista ho continuato a considerare la poesia come una liberazione che ho sempre desiderato prolungare». (...) Con elegante immediatezza, Soupault riesce sorgente-ricevente, cartina di tornasole delle costanti dinamiche ed eterne dell'esistenza. «Senza retorica» scrive Marcel Raymond «una poesia senza ornamenti; e anche questo surrealismo, dov'è se non nello sforzo di percepire, ai confini dello spirito, il volto della vita?» Un volto che sovente si cela nei chiaroscuri della notte, nei lampioni che tratteggiano appena il buio, nell'incertezza che s'insinua nelle consuetudini e ne setaccia l'incolore succedersi, nel mistero che sfratta le abitudini, cassa di risonanza che non moltiplica effetti bensì presenze. Non vale più la logica solita, nella notte. Difatti la poesìa che la «ausculta», poiché riesce «il reale assoluto» (Novalis), poiché testimonia una chiaroveggenza permeabile, non ne serba traccia. Nella notte scocca l'insolito: riprendendo una mai smarrita attitudine, Soupault si fa allora esploratore dell'insolito, di cui la poesia è il «diario di viaggio ». Dalla consapevolezza dì praticare situazioni non conformi alle esigenze imprescindibili dell'uomo, nasce l'urgenza di rintracciare un altrove: non asilo confortevole e insipido ma spazio vitalizzante, da intuire e schiudere per tutti. Se la poesia, come del resto qualsivoglia espressione artìstica, ha il compito di far sentire che la sorte dell'individuo, magari stabilita a priori, tuttavia consiste grazie alle passioni, alla fantasia e all'immaginazione, allora l'angoscia esistenziale, l'agguato della morte e l'impalpabile incalzare del tempo, attraverso la sua voce non rimangono scacchi inesorabili. La poesia suggerisce proprio simili riscatti: quale faro puntato sul nulla, ne plasma l'indefinibile trasparenza architettando occasioni a immagine e somiglianzà dell'uomo che «la fa» e di chi, leggendola, «la rifa». Per Philippe Soupault si tratta di un imperativo ineludibile. (...) [nota di Ferdinando Albertazzi]

PREMESSA di Philippe Soupault










Chìnati
e buca la superficie liscia

Arancioni
azzurre
grigie
vermiglie
scorrono e nuotano
le mie poesie

Tutt'intorno al mio pensiero
volteggiano
i pesci verdi

MARCIA di Philippe Soupault










II 17 febbraio sono partito
Dove
All'orizzonte si allungavano fumi
Sono saltato sopra i libri

C'era gente che rideva
II mio desiderio mi prende per le braccia
Vorrei respingere le case
Andare più in fretta
II vento
E stato proprio necessario che uccidessi i miei amici

La notte non mi ha fatto cadere
Mi sono avvolto nella mia gioia
II grido dei rimorchiatori mi accompagnava
Non mi sono voltato
C'erano tante luci nella città sonora

Tutto è cambiato tornando
Ha rotto le mie idee immobili
I miei ricordi maculati li ho venduti

L'ARCANO DI PASOLINI di Jack Hirschman (seconda parte)











Avrebbero potuto essere anche qui,
in un luogo inesistente,
in questo luogo inesistente
che conosco così bene, questa New York di nulla facente,
facendo nulla, o, anche,
per tutti gli opportunisti, nulla da fare
nei luoghi che riattraverso
solitario, vecchio e
infelice come nella mia adolescenza
per le strade e giù negli scantinati dei club,
quella vita di muscoli rivoltata
come un guanto
di pustole e orecchie sporche,
ma adesso immensamente più solo
dacchè la produzione di cose è divenuta
una consunzione che tutto consuma, cosicchè ora
il nudo segno del dollaro è stampato
su tutto e su tutti
splendendo d'oscurità dagli abissi dell'avidità
dalla quale lui ci mise in guardia con innocenza indifesa
(come tutti da questa parte) paradossalmente indecente,
lui che aveva persino "imparato a fare l'amore senza amore
e senza rimorso"
-quei due uccelli neri del cervello
che eternamente predano sul suo corpo laggiù,
dall'alto della cima del tetto.
La paura è veramente qui adesso, infinita in occhi
che si distolgono. E pressata nelle orecchie. "Mi stanno
torturando in quell'edificio la ggiù e nessuno
sente le mie urla". Un mendicante suonatore di chitarra
di nome Pastrami sulla banchina della stazione dice
che hanno spazzato via tutti i senzatetto. Sul treno
occhi rivolti in basso, leggono notizie morte, mani stringono giornali
mentre un uomo sta in piedi con una vergogna impressionante, mendicando.

Tuttavia malgrado questo mucchio di gusci sordi e conchiglie,
di suoni e immagini, tazze vuote,
la proiezione si apre lentamente, lo stile
avanza le sue richiete, la fatica e la linfa vitale dell'emozione
defluiscono; sono qui, nel centro città. Nona Avenue
nella tenebra delle tenebre, il giro della puttana, 
lo stesso palpabile pericolo e corruzione.

Vittorio Bodini da Metamor, 1967. BESA editrice











Canzone semplice dell’esser se stessi
L’edera mi dice: non sarai
mai edera. E il vento:
non sarai vento. E il mare:
non sarai mare.
I cenci, i fiumi, l’alba della sposa
mi dicono: non sarai cencio né fiume,
non sarai l’alba della sposa.
L’àncora, il quattro di quadri, il divano-letto
mi dicono: non sarai noi,
non lo sei mai stato.
E così il sogno, l’arco, la penisola,
la ragnatela, la macchina espresso.
Dice lo specchio:
come vuoi essere specchio
se non sai dare altro che la tua immagine?
Dicono le cose: cerca d’esser te stesso
senza di noi.
Risparmiaci il tuo amore.
Io fuggo da ogni cosa delicatamente.
Provo a esser solo. Trovo
la morte e la paura.

GLI ARCANI di Jack Hirschman








“Gli Arcani rappresentano, nella vasta produzione poetica di Jack Hirschman, un tassello importante e straordinario, la punta più avanzata della sua ricerca. Si tratta di lunghi componimenti nei quali la sua scrittura si esalta e si libera, nei quali confluiscono i suoi saperi, le sue sensibilità, le sue ossessioni e i suoi amori; essi fondono l’impegno politico e i temi sociali, sempre presenti nella sua poesia, con gli strumenti letterari acquisiti negli anni; essi miscelano sapientemente la vita di strada con la storia, gli incontri reali o immaginari con la solennità del sacro, l’eros sempre presente nei suoi versi con l’ossessione dell’olocausto e degli orrori del fascismo vecchio e nuovo.”

Lettera sulla felicità (a Meneceo). Epicuro (341 A.C.)













Meneceo, mai si è troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità.
A qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell'animo nostro.
Chi sostiene che non è ancora giunto il momento di dedicarsi alla conoscenza di essa, o che ormai è troppo tardi, è come se andasse dicendo che non è ancora il momento di essere felice, o che ormai è passata l'età.
Ecco che da giovani come da vecchi è giusto che noi ci dedichiamo a conoscere la felicità.
Per sentirci sempre giovani quando saremo avanti con gli anni in virtù del grato ricordo della felicità avuta in passato, e da giovani, irrobustiti in essa, per prepararci a non temere l'avvenire.
Cerchiamo di conoscere allora le cose che fanno la felicità, perché quando essa c'è tutto abbiamo, altrimenti tutto facciamo per possederla.
Pratica e medita le cose che ti ho sempre raccomandato: sono fondamentali per una vita felice.
Prima di tutto considera l'essenza del divino materia eterna e felice, come rettamente suggerisce la nozione di divinità che ci è innata.
Non attribuire alla divinità niente che sia diverso dal sempre vivente o contrario a tutto ciò che è felice, vedi sempre in essa lo stato eterno congiunto alla felicità.
Gli dei esistono, è evidente a tutti, ma non sono come crede la gente comune, la quale è portata a tradire sempre la nozione innata che ne ha.
Perciò non è irreligioso chi rifiuta la religione popolare, ma colui che i giudizi del popolo attribuisce alla divinità.
Tali giudizi, che non ascoltano le nozioni ancestrali, innate, sono opinioni false.
A seconda di come si pensa che gli dei siano, possono venire da loro le più grandi sofferenze come i beni più splendidi.
Ma noi sappiamo che essi sono perfettamente felici, riconoscono i loro simili, e chi non è tale lo considerano estraneo.
Poi abìtuati a pensare che la morte non costituisce nulla per noi, dal momento che il godere e il soffrire sono entrambi nel sentire, e la morte altro non è che la sua assenza.
L'esatta coscienza che la morte non significa nulla per noi rende godibile la mortalità della vita, senza l'inganno del tempo infinito che è indotto dal desiderio dell'immortalità.
Non esiste nulla di terribile nella vita per chi davvero sappia che nulla c'è da temere nel non vivere più.
Perciò è sciocco chi sostiene di aver paura della morte, non tanto perché il suo arrivo lo farà soffrire, ma in quanto l'affligge la sua continua attesa.
Ciò che una volta presente non ci turba, stoltamente atteso ci fa impazzire.
La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi.
Quando noi viviamo la morte non c'è, quando c'è lei non ci siamo noi.
Non è nulla né per i vivi né per i morti.
Per i vivi non c'è, i morti non sono più.
Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male, ora la invoca come requie ai mali che vive.
Il vero saggio, come non gli dispiace vivere, così non teme di non vivere più.
La vita per lui non è un male, né è un male il non vivere.
Ma come dei cibi sceglie i migliori, non la quantità, così non il tempo più lungo si gode, ma il più dolce.
Chi ammonisce poi il giovane a vivere bene e il vecchio a ben morire è stolto non solo per la dolcezza che c'è sempre nella vita, anche da vecchi, ma perché una sola è la meditazione di una vita bella e di una bella morte.
Ancora peggio chi va dicendo: bello non essere mal nato, ma, nato, al più presto varcare la soglia della morte.
Se è così convinto perché non se ne va da questo mondo?
Nessuno glielo vieta se è veramente il suo desiderio.
Invece se lo dice così per dire fa meglio a cambiare argomento.
Ricordiamoci poi che il futuro non è del tutto nostro, ma neanche del tutto non nostro.
Solo così possiamo non aspettarci che assolutamente s'avveri, né allo stesso modo disperare del contrario.
Così pure teniamo presente che per quanto riguarda i desideri, solo alcuni sono naturali, altri sono inutili, e fra i naturali solo alcuni quelli proprio necessari, altri naturali soltanto.
Ma fra i necessari certi sono fondamentali per la felicità, altri per il benessere fisico, altri per la stessa vita.
Una ferma conoscenza dei desideri fa ricondurre ogni scelta o rifiuto al benessere del corpo e alla perfetta serenità dell'animo, perché questo è il compito della vita felice, a questo noi indirizziamo ogni nostra azione, al fine di allontanarci dalla sofferenza e dall'ansia.
Una volta raggiunto questo stato ogni bufera interna cessa, perché il nostro organismo vitale non è più bisognoso di alcuna cosa, altro non deve cercare per il bene dell'animo e del corpo.
Infatti proviamo bisogno del piacere quando soffriamo per la mancanza di esso.
Quando invece non soffriamo non ne abbiamo bisogno.
Per questo noi riteniamo il piacere principio e fine della vita felice, perché lo abbiamo riconosciuto bene primo e a noi congenito.
Ad esso ci ispiriamo per ogni atto di scelta o di rifiuto, e scegliamo ogni bene in base al sentimento del piacere e del dolore.
E' bene primario e naturale per noi, per questo non scegliamo ogni piacere.
Talvolta conviene tralasciarne alcuni da cui può venirci più male che bene, e giudicare alcune sofferenze preferibili ai piaceri stessi se un piacere più grande possiamo provare dopo averle sopportate a lungo.
Ogni piacere dunque è bene per sua intima natura, ma noi non li scegliamo tutti. Allo stesso modo ogni dolore è male, ma non tutti sono sempre da fuggire.
Bisogna giudicare gli uni e gli altri in base alla considerazione degli utili e dei danni.
Certe volte sperimentiamo che il bene si rivela per noi un male, invece il male un bene.
Consideriamo inoltre una gran cosa l'indipendenza dai bisogni non perché sempre ci si debba accontentare del poco, ma per godere anche di questo poco se ci capita di non avere molto, convinti come siamo che l'abbondanza si gode con più dolcezza se meno da essa dipendiamo.
In fondo ciò che veramente serve non è difficile a trovarsi, l'inutile è difficile.
I sapori semplici danno lo stesso piacere dei più raffinati, I'acqua e un pezzo di pane fanno il piacere più pieno a chi ne manca.
Saper vivere di poco non solo porta salute e ci fa privi d'apprensione verso i bisogni della vita ma anche, quando ad intervalli ci capita di menare un'esistenza ricca, ci fa apprezzare meglio questa condizione e indifferenti verso gli scherzi della sorte.
Quando dunque diciamo che il bene è il piacere, non intendiamo il semplice piacere dei goderecci, come credono coloro che ignorano il nostro pensiero, o lo avversano, o lo interpretano male, ma quanto aiuta il corpo a non soffrire e l'animo a essere sereno.
Perché non sono di per se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per l'animo causa di immensa sofferenza.
Di tutto questo, principio e bene supremo è l'intelligenza delle cose, perciò tale genere di intelligenza è anche più apprezzabile della stessa filosofia, è madre di tutte le altre virtù.
Essa ci aiuta a comprendere che non si dà vita felice senza che sia intelligente, bella e giusta, né vita intelligente, bella e giusta priva di felicità, perché le virtù sono connaturate alla felicità e da questa inseparabili.
Chi suscita più ammirazione di colui che ha un'opinione corretta e reverente riguardo agli dei, nessun timore della morte, chiara coscienza del senso della natura, che tutti i beni che realmente servono sono facilmente procacciabili, che i mali se affliggono duramente affliggono per poco, altrimenti se lo fanno a lungo vuol dire che si possono sopportare?
Questo genere d'uomo sa anche che è vana opinione credere il fato padrone di tutto, come fanno alcuni, perché le cose accadono o per necessità, o per arbitrio della fortuna, o per arbitrio nostro.
La necessità è irresponsabile, la fortuna instabile, invece il nostro arbitrio è libero, per questo può meritarsi biasimo o lode.
Piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici, era meglio allora credere ai racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placarli con le preghiere, invece dell'atroce, inflessibile necessità.
La fortuna per il saggio non è una divinità come per la massa - la divinità non fa nulla a caso - e neppure qualcosa priva di consistenza.
Non crede che essa dia agli uomini alcun bene o male determinante per la vita felice, ma sa che può offrire l'avvio a grandi beni o mali.
Però è meglio essere senza fortuna ma saggi che fortunati e stolti, e nella pratica è preferibile che un bel progetto non vada in porto piuttosto che abbia successo un progetto dissennato.
Medita giorno e notte tutte queste cose e altre congeneri, con te stesso e con chi ti è simile, e mai sarai preda dell'ansia.
Vivrai invece come un dio fra gli uomini.
Non sembra più nemmeno mortale l'uomo che vive fra beni immortali.