venerdì 29 luglio 2016

POETI MALEDETTI

POETI MALEDETTI

La definizione di “poeti maledetti” si deve a un’antologia, curata da Paul Verlaine (1844-1896), intitolata Les poètes maudits, pubblicata nel 1884. L’antologia, che ebbe due edizioni, conteneva testi, tra gli altri, di Stéphane Mallarmé (1842-98),Arthur Rimbaud (1854-91), e Tristan Corbière(1845-75), oltre che dello stesso Verlaine. Sebbene Verlaine negasse qualsiasi carattere unitario e di “scuola” ai poeti inclusi nell’antologia, come anche a quelli a cui egli aveva dedicato una serie di biografie, pubblicate dal 1886 al 1892 con il titoloLes hommes d’aujourd’hui, è indubbio che in un certo ambiente letterario, di cui Verlaine è stato più che altro un catalizzatore involontario, è riconoscibile, tra decadentismo, parnassianesimo, simbolismo e loro coscienza critica, una fucina di irradiamento della poesia moderna.
La “maledizione”, nel suo senso più generalizzabile, consisteva nella separatezza e nella marginalità a cui il poeta, nella nascente società di massa, si sentiva costretto e di cui aveva consapevole e, si potrebbe dire, desiderata esperienza. Simile condizione produceva un declassamento, una perdita di ruolo che diventava fattore di ribellione e di riscatto estetico, a volte disperato e estremo, come nella sregolatezza “spontanea” dello stesso Verlaine, a volte lucido e malinconico, come nella denuncia della “perdita d’aureola” operata già da Charles Baudelaire (1821-67) in Le spleen de Paris. Non di rado i poeti maledetti, investendosi di ciò che Baudelaire chiamava la “tendenza essenzialmente demoniaca” dell’arte moderna, erano inclini a mettere in gioco la propria vita intera alla ricerca di una intensificazione, anche attraverso l’uso di alcol e di droghe, delle sensazioni, dell’esperienza e della conoscenza. Rimbaud fu una delle figure esemplari, dal punto di vista biografico, di tale inclinazione autodistruttiva: morì infatti a soli 37 anni dopo una vita irrequieta e sregolata. Nella scrittura tali caratteri, sostenuti da una poetica della quintessenza e della veggenza, dei sensi e dell’illuminazione, hanno conseguenze sia tematiche sia formali. La parola poetica viene caricata di un potere magico, straniante e incantatorio, sia che essa rappresenti una separazione dal mondo, sia che voglia costruire un mondo. Si cerca una sua musicalità interna, moderando artifici meccanici come la rima e i parisillabi; si amano le sfumature, più che i colori, poiché solo la sfumatura, come dice Verlaine in Arte poetica (1874), “fidanza / il sogno al sogno”. Si valorizza la figura del poeta che diventa veggente, in grado di penetrare una verità oscura e infinita. Si cerca un rapporto con il mondo puramente sensuale, non più mediato dalla ragione, che si esprime in una fusione “di sogno e precisione”.
In questa direzione si era mosso Paul Verlaine già a partire dalla sua prima raccolta del 1866, Poèmes saturniens, ispirata a Baudelaire. Verlaine definisce i suoi versi al tempo stesso “già vecchi” e “già musicali”, cioè preludio del Simbolismo. La sua poesia influenzerà diversi poeti, da M. Maeterlinck a F. Jammes. Anche D’Annunzio deve molto al sensualismo al tempo stesso religioso ed epidermico, tra Saffo e Santa Teresa, di Verlaine. L’influenza di Rimbaud sarà anche più vasta, per la radicalità con cui il poeta disgregherà le impalcature sintattiche della lingua, i legami logici e cronologici, le tradizionali modalità della narrazione e della descrizione, fino ad essere preso come modello anche dai movimenti d’avanguardia. Del 1886 è il Manifesto del Simbolismo, pubblicato sul “Figaro” daJean Moréas, da cui nasce ufficialmente una poetica che eredita e raccoglie alcuni degli assunti fondamentali che si erano andati precisando negli anni precedenti. Essa, nelle sue differenti sfumature e nelle reazioni suscitate, dominerà il periodo a cavallo fra i due secoli e influenzerà in larga misura la poesia del Novecento.
L’Assenzio
Edgar Degas, “L’Assenzio”
Circondato da una fama sinistra e da cupe ombre, l’assenzio, coi suoi 70 gradi di alcolicità, è stata la bevanda prediletta da artisti e intellettuali fino al 1915, anno in cui venne bandita in quanto “vera piaga sociale”, come affermò Emile Zola. Ne fecero un uso smodato, fra i tanti, Van Gogh, Toulouse-Lautrec, Baudelaire, Alfred Jarry, Verlaine, Rimbaud, Musset. Ammaliante liquore dall’amaro gusto di anice, l’assenzio divenne ben presto uno dei miti di fine ‘800, e fu definito Le péril vert, il pericolo verde, o anche La fée verte, la fata verde. Nel 1859 Edouard Manet gli consacrò un quadro, Il bevitore d’assenzio, che suscitò scandalo (il soggetto era un clochard) e venne rifiutato dal Salon. Nel 1876 fu invece Degas a dedicargli un suo strepitoso dipinto (immagine a destra). Ma il fascino dell’assenzio si rivelò ben presto diabolico: era infatti micidiale come una vera e propria droga, sebbene ufficialmente fosse un aperitivo dal gusto molto aromatico che dava immediatamente un gradevole senso di stordimento. La bevanda cominciò a diffondersi nel 1830 grazie alla “propaganda” dei soldati di ritorno dalla campagna dell’Algeria e conquistò immediatamente quelle generazioni “romantiche” in conflitto con la borghesia, che in essa vedevano un perfetto strumento di provocazione. L’assenzio veniva preparato con un preciso rituale: dopo aver versato un po’ di liquido nel fondo di un calice di forma svasata, si appoggiava sul bordo superiore del bicchiere un cucchiaino forato che sorreggeva una zolletta di zucchero; si lasciava quindi colare lentamente acqua fresca che scioglieva lo zucchero e diluiva il liquore addolcendolo. Alfred Delvau disse: “L’ubriachezza che dà non assomiglia a nessun’altra di quelle conosciute. Non è l’ubriacatura pesante della birra, né quella feroce dell’acquavite e neppure la gioviale ubriachezza del vino… No, l’assenzio vi fa girare la testa alla prima fermata, vale a dire al primo bicchiere, vi salda sulle spalle un paio di ali di grande portata e si parte per un paese senza frontiere e senza orizzonti ma anche senza poesia e senza sole”. Gustave Flaubert, nel suo “Dizionario dei luoghi comuni” lo definisce ironicamente “veleno ultraviolento: un bicchiere e siete morti. I giornalisti lo bevono mentre scrivono i loro articoli. Ha ucciso più francesi degli stessi beduini”.
Rimbaud  e  Jim Morrison
Jim Morrison
Jim Morrison
Nel 1968 Wallace Fowlie, professore di letteratura francese alla Duke University, ricevette una lettera:
Caro Wallace Fowlie,
volevo solo ringraziarla per la sua traduzione di Rimbaud. Mi è molto utile perché non leggo correntemente il francese… Sono un cantante rock e il suo libro viaggia sempre con me. PS Il disegno di Picasso in copertina èmagnifico.
L’autore della lettera era Jim Morrison, leggendario cantante – e poeta – dei Doors, e il destinatario della sua missiva (il cui vero nome, fuor di pseudonimo, è James B. Duke) aveva tradotto le opere di Rimbaud in inglese e pubblicato numerosi saggi a lui dedicati. In seguito, nel 1994, darà alle stampe lo studio Rimbaud e Jim Morrison. Il ribelle come poeta (tradotto in Italia), sulle analogie fra i due autori, e durante gli anni Ottanta e per tutto il giugno del 1991 terrà diverse conferenze in merito. Jim portava con sé, ovunque andasse, una copia delleIlluminazioni di Rimbaud, e comparve in molti dei film realizzati dagli studenti dell’UCLA mentre cammina sui parapetti degli edifici più alti del campus declamando brani di Rimbaud. Assieme al compagno di corso Phil Oleno, progettò addirittura di fermare su una pellicola alcuni momenti della vita del “poeta maledetto”.
Adesso cambiamo del tutto contesto e spostiamoci in una gelida notte di ottobre di un giorno imprecisato. Il concerto dei Doors è definitivamente terminato e il pubblico, che chiede invano il terzo bis, viene convinto dai poliziotti a tornare a casa. Jim Morrison se ne sta nella zona dei camerini insieme agli altri componenti della band, più vari amici e giornalisti, bevendo birra e chiacchierando. A un certo punto nota due graziose ragazzine che si dirigono verso di lui guidate da un poliziotto corpulento. “Come vi chiamate?” chiede loro prendendo la penna e i fogli che l’uomo aveva in mano. Le ragazze riescono a balbettare i loro nomi con evidente imbarazzo. “Come?” sorride Jim avvicinandosi ancora di più. Ormai le due si stanno letteralmente sciogliendo di fronte al suo sorriso. “Lei è Nancy” fa il poliziotto indicandola, “e l’altra e Sheila, mia nipote”. Le due, in preda all’emozione, si sostengono a vicenda mentre Jim scrive sui due pezzi di carta e poi glieli restituisce. Nancy si fa coraggio e gli chiede se per favore possono farsi anche una fotografia. Jim accetta volentieri e un suo amico li immortala tutti e tre assieme. “Forza ragazze, ora ringraziate e andiamo a casa, è tardissimo.” taglia corto il poliziotto. Le due giovani fan prendono i foglietti su cui aveva scritto Jim Morrison e leggono: “A Nancy, con amore, Arthur Rimbaud” e “A Sheila, con amore, Arthur Rimbaud”. Il cantante gli lancia uno sguardo disarmante e torna verso i camerini.
Jim Morrison e Arthur Rimbaud sono considerati due artisti strettamente imparentati per una serie di impetuose analogie. Entrambi manifestano una precocità intellettuale fuori dal comune, che colpisce gli insegnanti. Entrambi sono colti da un improvviso e violento impulso di ribellione contro qualsiasi tipo di autorità e convenzione sociale. Entrambi conducono una vita sregolata, fatta di eccessi e provocazioni. Entrambi intendono il poeta come veggente che spalanca varchi nella realtà con la forza delle sue visioni. Morrison viene folgorato dai nuovi poeti della Beat Generation, Rimbaud dai poeti parnassiani dell’avanguardia romantica. Entrambi hanno un’indole sostanzialmente introversa e timida che tuttavia, una volta “disinibita”, prorompe in atteggiamenti aggressivi e irruenti. Entrambi, infine, muoiono in Francia in giovane età – il primo a ventisette anni, il secondo a trentasette – assurgendo a simboli eterni di rivoluzione universale.
Il poeta di Charleville fu un autore culto per Jim Morrison, come, del resto, è figura leggendaria che infiamma gli animi poetici e ribelli di ogni nuova generazione. Echi della sua poesia visionaria sono presenti, come oscuri presagi, in ogni verso del leader dei Doors. La stessa vita di Morrison sembra minuziosamente edificata sulle teorie innovative e rivoluzionarie di Rimbaud:
[Il poeta deve sperimentare] tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non serbarne che la quintessenza. Ineffabile tortura in cui ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il grande malato, il grande criminale, il grande maledetto, – e il sommo Sapiente! – Poiché giunge all’ignoto! Avendo coltivato la sua anima, già ricca, più di ogni altro! Egli giunge all’ignoto, e anche se, sconvolto, dovesse finire per perdere l’intelligenza delle sue visioni, le avrebbe pur sempre viste! Crepi pure nel suo balzo attraverso le cose inaudite e innominabili: verranno altri orribili lavoratori; cominceranno dagli orizzonti su cui l’altro si è accasciato!
L’amico McClure ricorda che Morrison
era affascinato dall’idea rimbaldiana della sregolatezza sistematica dei sensi. Quando operi per disarticolare il normale equilibrio dei tuoi sensi, che tu lo faccia con l’alcol, con l’insonnia, con le paure, oppure col sesso o con le sostanze stupefacenti, non solo aggiungi qualcosa al corpo della tua consapevolezza, ma lo modifichi profondamente, così da farti guardare alle cose in maniera diversa. E una volta che hai osservato il mondo in modo diverso allarghi il campo, è come se ti costruissi un oblò deformante che triplica le dimensioni del campo di osservazione, ed è proprio questo l’imperativo di un giovane poeta che voglia esprimere qualcosa di veramente significativo: di un giovane poeta che scrive di atti avventurosi, di coscienza e di percezione.
Jim Morrison – che non è escluso avesse letto Il tempo degli assassini, saggio di Henry Miller su Rimbaud – sosteneva che lo scopo della sua poesia era quello di “liberare la gente dai modi limitati in cui vede e sente” (“apriti un varco dall’altra parte” recita la canzone Break on through) facendo presente che
Quando scrivi una poesia devi entrare in uno stato mentale particolare, che è quello in cui può indurti la musica con la sua capacità ipnotica di allentare i freni, di lasciare che l’inconscio faccia la sua parte, quale che sia.
Tracce della concezione di poeta-veggente si rinvengono nella cultura germanica e celtica, in quella indoeuropea e nello sciamanesimo. Questa forma di ispirazione viene descritta da Platone come invasamento, estasi bacchica, stato di irrazionalità e follia che va ricondotto alla mantica e ai culti dionisiaci e coribantici. Nel dialogo Fedro il filosofo spiega: “Chi senza la follia delle Muse giunga alle Porte della Poesia, convinto che grazie all’arte sarà valido poeta, è incompiuto e la poesia di colui che è in senno viene oscurata da quella di chi è preso da follia.” Platone, a proposito dell’afflato poetico, cita a sua volta Socrate, che ricordava ai suoi allievi come i poeti dovessero essere “folli” per raggiungere un’autentica ispirazione divina: se lo erano, allora le rivelazioni del loro oracolo – parole, poesie, storie espresse in stato d’incoscienza e possessione divina – potevano definire il posto dell’uomo nel Cosmo. Nello Ione Socrate parla dell’ispirazione come di una potenza divina che invade il poeta: come la forza del magnete si trasmette a una serie di anelli di ferro collegati tra loro, così l’ispirazione divina proveniente dalla Musa si trasmette ad una catena di cantori e poeti invasati.
Infatti tutti i poeti epici, quelli valenti, cantano tutti questi bei poemi non perché li creino con l’arte, ma perché sono pieni di spirito divino e posseduti, e così pure i buoni poeti melici. […] Il poeta è un essere leggero, alato, sacro e non è capace di poetare se prima non sia entrato nella divinità e non sia uscito di senno e più non vi sia in lui raziocinio.
Il cosiddetto “furor” dei latini indicava tanto l’ardore guerriero quanto l’entusiasmo dei poeti ispirati e dei profeti. Furor è infatti una delle divinità del corteo di Marte, ma è anche lo stato di incontenibile esaltazione che contraddistingue il poeta invasato. Secondo Democrito “nessuno può essere grande poeta senza esaltazione furiosa”; si tratta, peraltro, dello stesso furor che agita la Sibilla cumana. La tradizione dell’oracolo-veggente-profeta-poeta risale in realtà a molto prima del 400 a.C., epoca in cui Socrate insegnava. I primi canti primitivi erano infatti preghiere poetiche ispirate da sensazioni di estreme privazioni, allucinazioni naturali e stato di grande emotività. Il poeta divinatore comprendeva e interpretava la realtà per la sua tribù non analizzando fatti e tendenze, ma evocando parole, immagini, paradossi e miti. Non appena la forza delle visioni delle grandi religioni svaniva, ce n’era bisogno di nuove da evocare, attraverso l’arte e la poesia. Scrive Rimbaud:
Il poeta è veramente un ladro di fuoco. Ha a suo carico l’umanità, perfino gli animali; dovrà far sentire, palpare, ascoltare le sue invenzioni; se ciò che riporta da laggiù ha forma, egli dà forma; se è informe, darà l’informe. Trovare una lingua; – Del resto, ogni parola essendo idea, il tempo di un linguaggio universale verrà! Bisogna essere un accademico, – più morto di un fossile, – per rifinire un dizionario, di qualunque lingua sia. I deboli che si mettessero a pensare sulla prima lettera dell’alfabeto, potrebbero rovinare subito nella pazzia! – Questa lingua sarà dell’anima per l’anima, riassumendo tutto, profumi, suoni, colori, pensiero che aggancia il pensiero e che tira. Il poeta definirebbe la quantità d’ignoto che si risveglia nell’anima universale del suo tempo: egli darebbe di più – della formula del suo pensiero, della notazione della sua marcia verso il Progresso! Enormità che diventa norma, assorbita da tutti, egli sarebbe veramente un moltiplicatore di progresso.
Secondo Rimbaud, dunque, il poeta deve la propria lucidità sovrannaturale alla capacità di coltivare sistematicamente le sensazioni, allo sconvolgimento di tutti i sensi, e diventa veggente attraverso la malattia, la droga, il delitto, coltivando in sé allucinazioni e percezioni assolute. Tale concetto era stato adombrato qualche anno prima nei Paradisi artificiali di Charles Baudelaire, il quale ritiene l’immaginazione “una facoltà quasi divina che intuisce immediatamente, al di fuori dei metodi filosofici, i rapporti intimi e segreti delle cose, le corrispondenze e le analogie”. I suoi Scritti sull’artesono ricchi di osservazioni sull’intimo congiungimento tra colori, suoni e profumi e sulle visioni poetiche che possono essere indotte artificialmente dall’uso di stupefacenti. William James (1842-1910), psicologo e filosofo americano, ne Le varie forme dell’esperienza religiosa scrive:
La sobrietà riduce, discrimina e dice no; l’ubriachezza espande, unifica e dice sì.
Jim Morrison sperimentò su se stesso gli effetti dell’LSD, droga sintetica, e del peyote, cactus messicano dalle proprietà allucinogene la cui sostanza attiva è la mescalina. Rimbaud faceva abuso di hashish e nella poesia Mattinata d’ebbrezza descrisse l’estasi e il “risveglio” dallo stato “dionisiaco”:
Questo veleno resterà in tutte le nostre vene anche quando, passata la fanfara, saremo restituiti all’antica disarmonia. Oh adesso noi così degni di queste torture! riuniamo con fervore questa promessa sovrumana, questa demenza! […] Cominciò con qualche nausea e finì, non potendo impadronirci subito di quella eternità, finì con uno stordimento di profumi. […] Piccola veglia d’ebbrezza, santa! non fosse altro che per la maschera di cui ci hai gratificato. Noi ti affermiamo, metodo! Non dimentichiamo che ieri hai glorificato ciascuna delle nostre età. Noi abbiamo fede nel veleno. Sappiamo donare la nostra vita intera tutti i giorni.
Copertina del libro di Wallace Fowlie
L’opera e la vita di Jim Morrison e Rimbaud sono destinate ad intrecciarsi in più punti. Quest’ultimo, a sedici anni, amava “rifugiarsi” presso la biblioteca municipale del suo paese divorando antichi trattati di alchimia e occultismo, libretti di opera buffa e romanzi licenziosi del Settecento, finché un giorno il bibliotecario Hubert, stanco delle sue insolite richieste, lo cacciò via: Rimbaud per vendicarsi scrisse I seduti, poesia in cui irrideva i fossili che passano le giornate “tremando come i rospi tremano dolenti”. Morrison adolescente, nei suoi anni di corso al George Washington, lesse più di qualunque altro studente, ed è provato che attinse anche ad opere inconsuete: nella Biblioteca del Congresso consultò libri di demonologia del XVI e XVII Secolo. Rimbaud a dodici anni fu colto da un violento ma effimero fervore religioso. Morrison appunta nei suoi taccuini: “Mi sono ribellato alla chiesa dopo fasi di fervore”. Rimbaud, nel 1870, scrive al suo professore Izambard: “che vuole, mi incaponisco tremendamente ad adorare la libertà libera”; Morrison, nel 1971, pochi mesi prima di morire, scrive all’amico Dave Marsh: “non sono pazzo, mi interessa la libertà”. Lampi di visionarietà tipicamente rimbaldiana si stendono come un velo lucente su tutte le sue composizioni e in alcuni passaggi le “citazioni” del poeta di Charleville sono palesi. In Una stagione all’inferno Rimbaud scrive:
Conosco ancora la natura? mi conosco? – Basta con le parole. Seppellisco i morti nel mio ventre. Grida, tamburo, danza, danza, danza, danza! Non vedo nemmeno il momento in cui, allo sbarco dei bianchi, cadrò nel nulla.
Fame, sete, grida, danza, danza, danza, danza!
Jim Morrison, in una delle sue poesie disseminate sulle centinaia di foglietti volanti e taccuini che utilizzava per i suoi “versi”, poi riuniti in una raccolta postuma, richiama ritmi forsennati e orgiastici col medesimo imperativo “danza”, che evoca movenze ipnotiche e ancestrali.
dove sono i miei sognatori
oggi & stanotte
dove sono i miei danzatori
che saltano follemente
piroettando e urlando
dove sono le mie donne
quietamente sognanti
imprigionate come angeli
nel portico oscuro
di un podere vellutato
danza danza danza danza
danza danza danza
L’omaggio a Rimbaud si fa addirittura esplicito quando Morrison appunta fra virgolette: “Ho visto l’Inferno delle donne là dietro”, facendo riferimento alla celebre chiusa di Una stagione all’inferno in cui il poeta maudit afferma spavaldo:
Intanto è la vigilia. Accogliamo ogni influsso di vigore e di tenerezza reale. E all’aurora, armati di un’ardente pazienza, entreremo nelle splendide città.
Che mai parlavo di mano amica! E’ un bel vantaggio, che posso ridere dei vecchi amori menzogneri, e colpire di vergogna quelle coppie bugiarde, – ho visto l’inferno delle donne laggiù; – e mi sarà lecito possedere la verità in un’anima e in un corpo.
Il furore ribelle che prorompeva da Arthur Rimbaud sfrigola parallelo, lungo un ardente filo di fuoco, a quello che sprigionava il frontman dei Doors, che nei suoi taccuini appunta una breve “presentazione autobiografica” molto simile, nella struttura, a quella di Rimbaud nel capitolo Cattivo sangue di Una stagione all’inferno. Scrive Morrison:
Sono Scozzese, o così
mi dicono. In realtà
l’erede di Cristiani
   Misterici
Serpente nella Forra
Il figlio d’una
Famiglia di militari…
Mi sono ribellato alla chiesa
dopo fasi di
   fervore
A scuola mi arruffianavo la stima
& attaccavo gli insegnanti
   Mi misero in un
   banco d’angolo
   Ero un matto
   &
   Il ragazzo più sveglio
   della classe
Scrive Rimbaud:
Dei miei antenati Galli ho l’occhio biancazzurro, il cervello stretto, e la goffaggine nella lotta. Trovo il mio modo di vestire barbaro quanto il loro. Ma non mi ungo di burro i capelli.
I Galli erano gli scorticatori di bestie, i bruciatori d’erba più inetti del loro tempo.
Di loro, ho: l’idolatria e l’amore del sacrilegio; – oh! tutti i vizi, ira, lussuria, – magnifica, la lussuria; – soprattutto menzogna e pigrizia.
Ho orrore di tutti i mestieri. Padroni e operai, tutti bifolchi, ignobili. La mano da penna vale la mano da aratro. – Che secolo di mani! – Io non avrò mai la mia mano. […]
Non mi vedo mai nei consigli di Cristo; e neanche nei consigli dei Signori, – rappresentanti di Cristo. […]
Ora sono maledetto. Ho orrore della patria. Il meglio, è un bel sonno ubriaco, sul greto.
Rimbaud, seduto al Cafè Dutherme, nella Place Ducale di Charleville, inveiva ad alta voce contro la Francia “sciovinista”, la gente senza scrupoli e la maggior parte dell’umanità che avrebbe dovuto essere “sterminata a fuoco lento”, scriveva “Merde à Dieu” sulle panchine, dileggiava i preti e un giorno arrivò perfino a provocare degli spocchiosi ufficiali prussiani in un caffè ricevendo in cambio torve occhiatacce: non vi furono conseguenze più gravi per un puro caso. Morrison aizzava la folla dal palcoscenico e provocava le forze di polizia che più volte dovettero intervenire per sospendere il concerto. In un’intervista dichiarò:
La rivoluzione deve essere permanente, altrimenti si esaurisce tutto. Dovrà esserci sempre rivoluzione, dovrà essere una cosa costante, non qualcosa che cambierà il mondo e avrà finito il suo compito. Non una rivoluzione che risolva tutto in via definitiva. Dev’essere quotidiana.
L’impeto distruttivo di Rimbaud infuria in un manoscritto senza titolo né data (probabilmente composto nel 1872) in cui il poeta scioglie le briglie a una marcia devastante:
Cosa sono per noi, cuor mio, le distese di sangue
E brace, e mille omicidi, e lunghe grida
Di rabbia, singhiozzi di ogni inferno che rovesciano
Ogni ordine; e l’Aquilone ancora sui rottami
E ogni vendetta? Niente!… – Ma sì, la vogliamo ancora
Tutta quanta! Industriali, principi, senati,
Crepate! potenza, giustizia, storia, abbasso!
Ci è dovuto. Il sangue! il sangue! la fiamma d’oro!
Diamoci alla guerra, alla vendetta, al terrore,
Mio Spirito! Giriamoci nel Morso: Ah! passate,
Repubbliche di questo mondo! Imperatori,
Reggimenti, coloni, popoli, basta!
Chi può smuovere i turbini del fuoco furente,
Se non noi e coloro che immaginiamo fratelli?
A noi! Romanzeschi amici: ci piacerà.
Non lavoreremo mai, o flutti di fuoco!
Europa, Asia, America, sparite.
La nostra marcia vendicatrice ha occupato tutto,
Città e campagne! – Saremo schiacciati!
I vulcani salteranno! e l’oceano colpito…
Oh! amici miei! – mio cuore, è certo, son fratelli:
Neri sconosciuti, se solo andassimo! andiamo! andiamo!
O sventura! mi sento fremere, la vecchia terra,
Su di me sempre più vostro! la terra si scioglie,
                                               Non è niente! sono qui! sono sempre qui.
Nell’ultima parte della poesia Rimbaud sembra quasi destarsi da un sogno. Il poeta-veggente, forse, iniziava già a intravedere la direzione che avrebbe presto imboccato la sua esistenza: una completa abnegazione nell’attività lavorativa e il definitivo ripudio della poesia e di quelle velleità ribelli che fino ai diciannove anni lo avevano fermamente convinto occorresse changer la vie, cambiare la vita. Anche il ventiseienne Jim Morrison, un anno prima di morire, aveva abbandonato i suoi slanci sovversivi ripiegando su un più mite buonsenso. In un’intervista radiofonica rilasciata nel maggio 1970 alla CBC disse:
Mantengo un pessimismo illuminato riguardo alle cose, così non resto deluso quando non vanno come voglio. Non voglio una rivoluzione. La rivoluzione non è altro che il passaggio da una corrente all’altra. E io penso che una rivoluzione in questo paese sarebbe un disastro. Vale ancora la pena di lottare per gli ideali democratici. Occorre solo cambiare qualche leader, cambiare qualche legge.
Alla virata di bordo “ideologica” di Jim Morrison non corrispose tuttavia un mutamento nel suo rapporto con gli alcolici e con la droga, di cui continuò ad abusare fino ad esserne stroncato. Tuttavia non smise mai di scrivere: nel corso dell’ultimo soggiorno a Parigi componeva poesie e prendeva appunti sulle peregrinazioni nel Marais, il vecchio quartiere in cui alloggiava. Rimbaud, al contrario, rinnegò tutti i suoi trascorsi da alcolizzato e tagliò i ponti anche con la letteratura, spiegando ad amici esterrefatti che “comprare libri è del tutto idiota, i libri sono buoni solo a mascherare la fatiscenza dei vecchi muri”. L’affinità fra i due artisti ha continuato ad essere alimentata dalle voci, iniziate a serpeggiare dopo il decesso, secondo cui Jim Morrison avesse in realtà inscenato la sua morte e fosse andato segretamente a vivere in Africa seguendo le orme del suo leggendario predecessore.
Arthur Rimbaud – come anche tutti gli altri “poeti maledetti” riuniti da Paul Verlaine nell’omonima antologia – ha avuto un’enorme influenza in ogni direzione, dalla narrativa alla semiotica, dalle arti figurative alla musica. La sua vita scandalosa e beffarda e i suoi versi diabolicamente ambigui, pregni di intuizioni mistiche e abbandoni estatici, hanno frantumato in una manciata d’anni secoli e secoli di convenzioni letterarie e sociali. Jim Morrison, suo erede spirituale, colse pienamente quello spirito reprobo continuando a far tuonare, nel suo breve transito terreno, i fulgidi bagliori della dissidenza contro i valori borghesi e l’ipocrisia della morale corrente.

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