La definizione di “poeti maledetti” si deve a un’antologia, curata da Paul Verlaine (1844-1896), intitolata Les poètes maudits, pubblicata nel 1884. L’antologia, che ebbe due edizioni, conteneva testi, tra gli altri, di Stéphane Mallarmé (1842-98),Arthur Rimbaud (1854-91), e Tristan Corbière(1845-75),
oltre che dello stesso Verlaine. Sebbene Verlaine negasse qualsiasi
carattere unitario e di “scuola” ai poeti inclusi nell’antologia, come
anche a quelli a cui egli aveva dedicato una serie di biografie,
pubblicate dal 1886 al 1892 con il titoloLes hommes d’aujourd’hui,
è indubbio che in un certo ambiente letterario, di cui Verlaine è stato
più che altro un catalizzatore involontario, è riconoscibile, tra
decadentismo, parnassianesimo, simbolismo e loro coscienza critica, una
fucina di irradiamento della poesia moderna.
La “maledizione”, nel suo senso più generalizzabile, consisteva nella
separatezza e nella marginalità a cui il poeta, nella nascente società
di massa, si sentiva costretto e di cui aveva consapevole e, si potrebbe
dire, desiderata esperienza. Simile condizione produceva un
declassamento, una perdita di ruolo che diventava fattore di ribellione e
di riscatto estetico, a volte disperato e estremo, come nella
sregolatezza “spontanea” dello stesso Verlaine, a volte lucido e
malinconico, come nella denuncia della “perdita d’aureola” operata già
da Charles Baudelaire (1821-67) in Le spleen de Paris.
Non di rado i poeti maledetti, investendosi di ciò che Baudelaire
chiamava la “tendenza essenzialmente demoniaca” dell’arte moderna, erano
inclini a mettere in gioco la propria vita intera alla ricerca di una
intensificazione, anche attraverso l’uso di alcol e di droghe, delle
sensazioni, dell’esperienza e della conoscenza. Rimbaud fu una delle
figure esemplari, dal punto di vista biografico, di tale inclinazione
autodistruttiva: morì infatti a soli 37 anni dopo una vita irrequieta e
sregolata. Nella scrittura tali caratteri, sostenuti da una poetica
della quintessenza e della veggenza, dei sensi e dell’illuminazione,
hanno conseguenze sia tematiche sia formali. La parola poetica viene
caricata di un potere magico, straniante e incantatorio, sia che essa
rappresenti una separazione dal mondo, sia che voglia costruire un
mondo. Si cerca una sua musicalità interna, moderando artifici meccanici
come la rima e i parisillabi; si amano le sfumature, più che i colori,
poiché solo la sfumatura, come dice Verlaine in Arte poetica (1874),
“fidanza / il sogno al sogno”. Si valorizza la figura del poeta che
diventa veggente, in grado di penetrare una verità oscura e infinita. Si
cerca un rapporto con il mondo puramente sensuale, non più mediato
dalla ragione, che si esprime in una fusione “di sogno e precisione”.
In questa direzione si era mosso Paul Verlaine già a partire dalla sua prima raccolta del 1866, Poèmes saturniens,
ispirata a Baudelaire. Verlaine definisce i suoi versi al tempo stesso
“già vecchi” e “già musicali”, cioè preludio del Simbolismo. La sua
poesia influenzerà diversi poeti, da M. Maeterlinck a F. Jammes. Anche D’Annunzio deve molto al sensualismo al tempo stesso religioso ed epidermico, tra Saffo e
Santa Teresa, di Verlaine. L’influenza di Rimbaud sarà anche più vasta,
per la radicalità con cui il poeta disgregherà le impalcature
sintattiche della lingua, i legami logici e cronologici, le tradizionali
modalità della narrazione e della descrizione, fino ad essere preso
come modello anche dai movimenti d’avanguardia. Del 1886 è il Manifesto del Simbolismo, pubblicato sul “Figaro” daJean Moréas,
da cui nasce ufficialmente una poetica che eredita e raccoglie alcuni
degli assunti fondamentali che si erano andati precisando negli anni
precedenti. Essa, nelle sue differenti sfumature e nelle reazioni
suscitate, dominerà il periodo a cavallo fra i due secoli e influenzerà
in larga misura la poesia del Novecento.
L’Assenzio
Circondato da una fama sinistra e da cupe ombre, l’assenzio, coi suoi 70
gradi di alcolicità, è stata la bevanda prediletta da artisti e
intellettuali fino al 1915, anno in cui venne bandita in quanto “vera
piaga sociale”, come affermò Emile Zola. Ne fecero un uso smodato, fra i
tanti, Van Gogh, Toulouse-Lautrec, Baudelaire, Alfred Jarry, Verlaine,
Rimbaud, Musset. Ammaliante liquore dall’amaro gusto di anice,
l’assenzio divenne ben presto uno dei miti di fine ‘800, e fu definito Le péril vert, il pericolo verde, o anche La fée verte, la fata verde. Nel 1859 Edouard Manet gli consacrò un quadro, Il bevitore d’assenzio,
che suscitò scandalo (il soggetto era un clochard) e venne rifiutato
dal Salon. Nel 1876 fu invece Degas a dedicargli un suo strepitoso
dipinto (immagine a destra). Ma il fascino dell’assenzio si rivelò ben
presto diabolico: era infatti micidiale come una vera e propria droga,
sebbene ufficialmente fosse un aperitivo dal gusto molto aromatico che
dava immediatamente un gradevole senso di stordimento. La bevanda
cominciò a diffondersi nel 1830 grazie alla “propaganda” dei soldati di
ritorno dalla campagna dell’Algeria e conquistò immediatamente quelle
generazioni “romantiche” in conflitto con la borghesia, che in essa
vedevano un perfetto strumento di provocazione. L’assenzio veniva
preparato con un preciso rituale: dopo aver versato un po’ di liquido
nel fondo di un calice di forma svasata, si appoggiava sul bordo
superiore del bicchiere un cucchiaino forato che sorreggeva una zolletta
di zucchero; si lasciava quindi colare lentamente acqua fresca che
scioglieva lo zucchero e diluiva il liquore addolcendolo. Alfred Delvau
disse: “L’ubriachezza che dà non assomiglia a nessun’altra di quelle
conosciute. Non è l’ubriacatura pesante della birra, né quella feroce
dell’acquavite e neppure la gioviale ubriachezza del vino… No,
l’assenzio vi fa girare la testa alla prima fermata, vale a dire al
primo bicchiere, vi salda sulle spalle un paio di ali di grande portata e
si parte per un paese senza frontiere e senza orizzonti ma anche senza
poesia e senza sole”. Gustave Flaubert, nel suo “Dizionario dei luoghi
comuni” lo definisce ironicamente “veleno ultraviolento: un bicchiere e
siete morti. I giornalisti lo bevono mentre scrivono i loro articoli. Ha
ucciso più francesi degli stessi beduini”.
Rimbaud e Jim Morrison
Nel 1968 Wallace Fowlie, professore di letteratura francese alla Duke University, ricevette una lettera:
Caro Wallace Fowlie,
volevo
solo ringraziarla per la sua traduzione di Rimbaud. Mi è molto utile
perché non leggo correntemente il francese… Sono un cantante rock e il
suo libro viaggia sempre con me. PS Il disegno di Picasso in copertina
èmagnifico.
L’autore della lettera era Jim Morrison,
leggendario cantante – e poeta – dei Doors, e il destinatario della sua
missiva (il cui vero nome, fuor di pseudonimo, è James B. Duke) aveva
tradotto le opere di Rimbaud in inglese e pubblicato numerosi saggi a
lui dedicati. In seguito, nel 1994, darà alle stampe lo studio Rimbaud e
Jim Morrison. Il ribelle come poeta (tradotto in Italia), sulle
analogie fra i due autori, e durante gli anni Ottanta e per tutto il
giugno del 1991 terrà diverse conferenze in merito. Jim portava con sé,
ovunque andasse, una copia delleIlluminazioni di Rimbaud, e comparve in
molti dei film realizzati dagli studenti dell’UCLA mentre cammina sui
parapetti degli edifici più alti del campus declamando brani di Rimbaud.
Assieme al compagno di corso Phil Oleno, progettò addirittura di
fermare su una pellicola alcuni momenti della vita del “poeta
maledetto”.
Adesso
cambiamo del tutto contesto e spostiamoci in una gelida notte di
ottobre di un giorno imprecisato. Il concerto dei Doors è
definitivamente terminato e il pubblico, che chiede invano il terzo bis,
viene convinto dai poliziotti a tornare a casa. Jim Morrison se ne sta
nella zona dei camerini insieme agli altri componenti della band, più
vari amici e giornalisti, bevendo birra e chiacchierando. A un certo
punto nota due graziose ragazzine che si dirigono verso di lui guidate
da un poliziotto corpulento. “Come vi chiamate?” chiede loro prendendo
la penna e i fogli che l’uomo aveva in mano. Le ragazze riescono a
balbettare i loro nomi con evidente imbarazzo. “Come?” sorride Jim
avvicinandosi ancora di più. Ormai le due si stanno letteralmente
sciogliendo di fronte al suo sorriso. “Lei è Nancy” fa il poliziotto
indicandola, “e l’altra e Sheila, mia nipote”. Le due, in preda
all’emozione, si sostengono a vicenda mentre Jim scrive sui due pezzi di
carta e poi glieli restituisce. Nancy si fa coraggio e gli chiede se
per favore possono farsi anche una fotografia. Jim accetta volentieri e
un suo amico li immortala tutti e tre assieme. “Forza ragazze, ora
ringraziate e andiamo a casa, è tardissimo.” taglia corto il poliziotto.
Le due giovani fan prendono i foglietti su cui aveva scritto Jim
Morrison e leggono: “A Nancy, con amore, Arthur Rimbaud” e “A Sheila,
con amore, Arthur Rimbaud”. Il cantante gli lancia uno sguardo
disarmante e torna verso i camerini.
Jim
Morrison e Arthur Rimbaud sono considerati due artisti strettamente
imparentati per una serie di impetuose analogie. Entrambi manifestano
una precocità intellettuale fuori dal comune, che colpisce gli
insegnanti. Entrambi sono colti da un improvviso e violento impulso di
ribellione contro qualsiasi tipo di autorità e convenzione sociale.
Entrambi conducono una vita sregolata, fatta di eccessi e provocazioni.
Entrambi intendono il poeta come veggente che spalanca varchi nella
realtà con la forza delle sue visioni. Morrison viene folgorato dai
nuovi poeti della Beat Generation, Rimbaud dai poeti parnassiani
dell’avanguardia romantica. Entrambi hanno un’indole sostanzialmente
introversa e timida che tuttavia, una volta “disinibita”, prorompe in
atteggiamenti aggressivi e irruenti. Entrambi, infine, muoiono in
Francia in giovane età – il primo a ventisette anni, il secondo a
trentasette – assurgendo a simboli eterni di rivoluzione universale.
Il poeta di
Charleville fu un autore culto per Jim Morrison, come, del resto, è
figura leggendaria che infiamma gli animi poetici e ribelli di ogni
nuova generazione. Echi della sua poesia visionaria sono presenti, come
oscuri presagi, in ogni verso del leader dei Doors. La stessa vita di
Morrison sembra minuziosamente edificata sulle teorie innovative e
rivoluzionarie di Rimbaud:
[Il poeta
deve sperimentare] tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia;
egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non serbarne
che la quintessenza. Ineffabile tortura in cui ha bisogno di tutta la
fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il
grande malato, il grande criminale, il grande maledetto, – e il sommo
Sapiente! – Poiché giunge all’ignoto! Avendo coltivato la sua anima, già
ricca, più di ogni altro! Egli giunge all’ignoto, e anche se,
sconvolto, dovesse finire per perdere l’intelligenza delle sue visioni,
le avrebbe pur sempre viste! Crepi pure nel suo balzo attraverso le cose
inaudite e innominabili: verranno altri orribili lavoratori;
cominceranno dagli orizzonti su cui l’altro si è accasciato!
L’amico McClure ricorda che Morrison
era
affascinato dall’idea rimbaldiana della sregolatezza sistematica dei
sensi. Quando operi per disarticolare il normale equilibrio dei tuoi
sensi, che tu lo faccia con l’alcol, con l’insonnia, con le paure,
oppure col sesso o con le sostanze stupefacenti, non solo aggiungi
qualcosa al corpo della tua consapevolezza, ma lo modifichi
profondamente, così da farti guardare alle cose in maniera diversa. E
una volta che hai osservato il mondo in modo diverso allarghi il campo, è
come se ti costruissi un oblò deformante che triplica le dimensioni del
campo di osservazione, ed è proprio questo l’imperativo di un giovane
poeta che voglia esprimere qualcosa di veramente significativo: di un
giovane poeta che scrive di atti avventurosi, di coscienza e di
percezione.
Jim Morrison – che non è escluso avesse letto Il tempo degli assassini,
saggio di Henry Miller su Rimbaud – sosteneva che lo scopo della sua
poesia era quello di “liberare la gente dai modi limitati in cui vede e
sente” (“apriti un varco dall’altra parte” recita la canzone Break on through) facendo presente che
Quando
scrivi una poesia devi entrare in uno stato mentale particolare, che è
quello in cui può indurti la musica con la sua capacità ipnotica di
allentare i freni, di lasciare che l’inconscio faccia la sua parte,
quale che sia.
Tracce della
concezione di poeta-veggente si rinvengono nella cultura germanica e
celtica, in quella indoeuropea e nello sciamanesimo. Questa forma di
ispirazione viene descritta da Platone come invasamento, estasi
bacchica, stato di irrazionalità e follia che va ricondotto alla mantica
e ai culti dionisiaci e coribantici. Nel dialogo Fedro il
filosofo spiega: “Chi senza la follia delle Muse giunga alle Porte
della Poesia, convinto che grazie all’arte sarà valido poeta, è
incompiuto e la poesia di colui che è in senno viene oscurata da quella
di chi è preso da follia.” Platone, a proposito dell’afflato poetico,
cita a sua volta Socrate, che ricordava ai suoi allievi come i poeti
dovessero essere “folli” per raggiungere un’autentica ispirazione
divina: se lo erano, allora le rivelazioni del loro oracolo – parole,
poesie, storie espresse in stato d’incoscienza e possessione divina –
potevano definire il posto dell’uomo nel Cosmo. Nello Ione Socrate
parla dell’ispirazione come di una potenza divina che invade il poeta:
come la forza del magnete si trasmette a una serie di anelli di ferro
collegati tra loro, così l’ispirazione divina proveniente dalla Musa si
trasmette ad una catena di cantori e poeti invasati.
Infatti
tutti i poeti epici, quelli valenti, cantano tutti questi bei poemi non
perché li creino con l’arte, ma perché sono pieni di spirito divino e
posseduti, e così pure i buoni poeti melici. […] Il poeta è un essere
leggero, alato, sacro e non è capace di poetare se prima non sia entrato
nella divinità e non sia uscito di senno e più non vi sia in lui
raziocinio.
Il
cosiddetto “furor” dei latini indicava tanto l’ardore guerriero quanto
l’entusiasmo dei poeti ispirati e dei profeti. Furor è infatti una delle
divinità del corteo di Marte, ma è anche lo stato di incontenibile
esaltazione che contraddistingue il poeta invasato. Secondo Democrito
“nessuno può essere grande poeta senza esaltazione furiosa”; si tratta,
peraltro, dello stesso furor che agita la Sibilla cumana. La tradizione
dell’oracolo-veggente-profeta-poeta risale in realtà a molto prima del
400 a.C., epoca in cui Socrate insegnava. I primi canti primitivi erano
infatti preghiere poetiche ispirate da sensazioni di estreme privazioni,
allucinazioni naturali e stato di grande emotività. Il poeta divinatore
comprendeva e interpretava la realtà per la sua tribù non analizzando
fatti e tendenze, ma evocando parole, immagini, paradossi e miti. Non
appena la forza delle visioni delle grandi religioni svaniva, ce n’era
bisogno di nuove da evocare, attraverso l’arte e la poesia. Scrive
Rimbaud:
Il poeta è
veramente un ladro di fuoco. Ha a suo carico l’umanità, perfino gli
animali; dovrà far sentire, palpare, ascoltare le sue invenzioni; se ciò
che riporta da laggiù ha forma, egli dà forma; se è informe, darà
l’informe. Trovare una lingua; – Del resto, ogni parola essendo idea, il
tempo di un linguaggio universale verrà! Bisogna essere un accademico, –
più morto di un fossile, – per rifinire un dizionario, di qualunque
lingua sia. I deboli che si mettessero a pensare sulla prima lettera
dell’alfabeto, potrebbero rovinare subito nella pazzia! – Questa lingua
sarà dell’anima per l’anima, riassumendo tutto, profumi, suoni, colori,
pensiero che aggancia il pensiero e che tira. Il poeta definirebbe la
quantità d’ignoto che si risveglia nell’anima universale del suo tempo:
egli darebbe di più – della formula del suo pensiero, della notazione
della sua marcia verso il Progresso! Enormità che diventa norma,
assorbita da tutti, egli sarebbe veramente un moltiplicatore di
progresso.
Secondo
Rimbaud, dunque, il poeta deve la propria lucidità sovrannaturale alla
capacità di coltivare sistematicamente le sensazioni, allo
sconvolgimento di tutti i sensi, e diventa veggente attraverso la
malattia, la droga, il delitto, coltivando in sé allucinazioni e
percezioni assolute. Tale concetto era stato adombrato qualche anno
prima nei Paradisi artificiali di
Charles Baudelaire, il quale ritiene l’immaginazione “una facoltà quasi
divina che intuisce immediatamente, al di fuori dei metodi filosofici, i
rapporti intimi e segreti delle cose, le corrispondenze e le analogie”.
I suoi Scritti sull’artesono
ricchi di osservazioni sull’intimo congiungimento tra colori, suoni e
profumi e sulle visioni poetiche che possono essere indotte
artificialmente dall’uso di stupefacenti. William James (1842-1910),
psicologo e filosofo americano, ne Le varie forme dell’esperienza religiosa scrive:
La sobrietà riduce, discrimina e dice no; l’ubriachezza espande, unifica e dice sì.
Jim Morrison
sperimentò su se stesso gli effetti dell’LSD, droga sintetica, e del
peyote, cactus messicano dalle proprietà allucinogene la cui sostanza
attiva è la mescalina. Rimbaud faceva abuso di hashish e nella poesia Mattinata d’ebbrezza descrisse l’estasi e il “risveglio” dallo stato “dionisiaco”:
Questo
veleno resterà in tutte le nostre vene anche quando, passata la fanfara,
saremo restituiti all’antica disarmonia. Oh adesso noi così degni di
queste torture! riuniamo con fervore questa promessa sovrumana, questa
demenza! […] Cominciò con qualche nausea e finì, non potendo
impadronirci subito di quella eternità, finì con uno stordimento di
profumi. […] Piccola veglia d’ebbrezza, santa! non fosse altro che per
la maschera di cui ci hai gratificato. Noi ti affermiamo, metodo! Non
dimentichiamo che ieri hai glorificato ciascuna delle nostre età. Noi
abbiamo fede nel veleno. Sappiamo donare la nostra vita intera tutti i
giorni.
Copertina del libro di Wallace Fowlie
L’opera e la
vita di Jim Morrison e Rimbaud sono destinate ad intrecciarsi in più
punti. Quest’ultimo, a sedici anni, amava “rifugiarsi” presso la
biblioteca municipale del suo paese divorando antichi trattati di
alchimia e occultismo, libretti di opera buffa e romanzi licenziosi del
Settecento, finché un giorno il bibliotecario Hubert, stanco delle sue
insolite richieste, lo cacciò via: Rimbaud per vendicarsi scrisse I seduti,
poesia in cui irrideva i fossili che passano le giornate “tremando come
i rospi tremano dolenti”. Morrison adolescente, nei suoi anni di corso
al George Washington, lesse più di qualunque altro studente, ed è
provato che attinse anche ad opere inconsuete: nella Biblioteca del
Congresso consultò libri di demonologia del XVI e XVII Secolo. Rimbaud a
dodici anni fu colto da un violento ma effimero fervore religioso.
Morrison appunta nei suoi taccuini: “Mi sono ribellato alla chiesa dopo
fasi di fervore”. Rimbaud, nel 1870, scrive al suo professore Izambard:
“che vuole, mi incaponisco tremendamente ad adorare la libertà libera”;
Morrison, nel 1971, pochi mesi prima di morire, scrive all’amico Dave
Marsh: “non sono pazzo, mi interessa la libertà”. Lampi di visionarietà
tipicamente rimbaldiana si stendono come un velo lucente su tutte le sue
composizioni e in alcuni passaggi le “citazioni” del poeta di
Charleville sono palesi. In Una stagione all’inferno Rimbaud scrive:
Conosco
ancora la natura? mi conosco? – Basta con le parole. Seppellisco i morti
nel mio ventre. Grida, tamburo, danza, danza, danza, danza! Non vedo
nemmeno il momento in cui, allo sbarco dei bianchi, cadrò nel nulla.
Fame, sete, grida, danza, danza, danza, danza!
Jim
Morrison, in una delle sue poesie disseminate sulle centinaia di
foglietti volanti e taccuini che utilizzava per i suoi “versi”, poi
riuniti in una raccolta postuma, richiama ritmi forsennati e orgiastici
col medesimo imperativo “danza”, che evoca movenze ipnotiche e
ancestrali.
dove sono i miei sognatori
oggi & stanotte
dove sono i miei danzatori
che saltano follemente
piroettando e urlando
dove sono le mie donne
quietamente sognanti
imprigionate come angeli
nel portico oscuro
di un podere vellutato
danza danza danza danza
danza danza danza
L’omaggio a
Rimbaud si fa addirittura esplicito quando Morrison appunta fra
virgolette: “Ho visto l’Inferno delle donne là dietro”, facendo
riferimento alla celebre chiusa di Una stagione all’inferno in cui il poeta maudit afferma spavaldo:
Intanto è la
vigilia. Accogliamo ogni influsso di vigore e di tenerezza reale. E
all’aurora, armati di un’ardente pazienza, entreremo nelle splendide
città.
Che mai
parlavo di mano amica! E’ un bel vantaggio, che posso ridere dei vecchi
amori menzogneri, e colpire di vergogna quelle coppie bugiarde, – ho
visto l’inferno delle donne laggiù; – e mi sarà lecito possedere la
verità in un’anima e in un corpo.
Il furore
ribelle che prorompeva da Arthur Rimbaud sfrigola parallelo, lungo un
ardente filo di fuoco, a quello che sprigionava il frontman dei Doors,
che nei suoi taccuini appunta una breve “presentazione autobiografica”
molto simile, nella struttura, a quella di Rimbaud nel capitolo Cattivo sangue di Una stagione all’inferno. Scrive Morrison:
Sono Scozzese, o così
mi dicono. In realtà
l’erede di Cristiani
Misterici
Serpente nella Forra
Il figlio d’una
Famiglia di militari…
Mi sono ribellato alla chiesa
dopo fasi di
fervore
A scuola mi arruffianavo la stima
& attaccavo gli insegnanti
Mi misero in un
banco d’angolo
Ero un matto
&
Il ragazzo più sveglio
della classe
Scrive Rimbaud:
Dei miei
antenati Galli ho l’occhio biancazzurro, il cervello stretto, e la
goffaggine nella lotta. Trovo il mio modo di vestire barbaro quanto il
loro. Ma non mi ungo di burro i capelli.
I Galli erano gli scorticatori di bestie, i bruciatori d’erba più inetti del loro tempo.
Di loro, ho:
l’idolatria e l’amore del sacrilegio; – oh! tutti i vizi, ira,
lussuria, – magnifica, la lussuria; – soprattutto menzogna e pigrizia.
Ho orrore di
tutti i mestieri. Padroni e operai, tutti bifolchi, ignobili. La mano
da penna vale la mano da aratro. – Che secolo di mani! – Io non avrò mai
la mia mano. […]
Non mi vedo mai nei consigli di Cristo; e neanche nei consigli dei Signori, – rappresentanti di Cristo. […]
Ora sono maledetto. Ho orrore della patria. Il meglio, è un bel sonno ubriaco, sul greto.
Rimbaud,
seduto al Cafè Dutherme, nella Place Ducale di Charleville, inveiva ad
alta voce contro la Francia “sciovinista”, la gente senza scrupoli e la
maggior parte dell’umanità che avrebbe dovuto essere “sterminata a fuoco
lento”, scriveva “Merde à Dieu” sulle panchine, dileggiava i preti e un
giorno arrivò perfino a provocare degli spocchiosi ufficiali prussiani
in un caffè ricevendo in cambio torve occhiatacce: non vi furono
conseguenze più gravi per un puro caso. Morrison aizzava la folla dal
palcoscenico e provocava le forze di polizia che più volte dovettero
intervenire per sospendere il concerto. In un’intervista dichiarò:
La
rivoluzione deve essere permanente, altrimenti si esaurisce tutto. Dovrà
esserci sempre rivoluzione, dovrà essere una cosa costante, non
qualcosa che cambierà il mondo e avrà finito il suo compito. Non una
rivoluzione che risolva tutto in via definitiva. Dev’essere quotidiana.
L’impeto
distruttivo di Rimbaud infuria in un manoscritto senza titolo né data
(probabilmente composto nel 1872) in cui il poeta scioglie le briglie a
una marcia devastante:
Cosa sono per noi, cuor mio, le distese di sangue
E brace, e mille omicidi, e lunghe grida
Di rabbia, singhiozzi di ogni inferno che rovesciano
Ogni ordine; e l’Aquilone ancora sui rottami
E ogni vendetta? Niente!… – Ma sì, la vogliamo ancora
Tutta quanta! Industriali, principi, senati,
Crepate! potenza, giustizia, storia, abbasso!
Ci è dovuto. Il sangue! il sangue! la fiamma d’oro!
Diamoci alla guerra, alla vendetta, al terrore,
Mio Spirito! Giriamoci nel Morso: Ah! passate,
Repubbliche di questo mondo! Imperatori,
Reggimenti, coloni, popoli, basta!
Chi può smuovere i turbini del fuoco furente,
Se non noi e coloro che immaginiamo fratelli?
A noi! Romanzeschi amici: ci piacerà.
Non lavoreremo mai, o flutti di fuoco!
Europa, Asia, America, sparite.
La nostra marcia vendicatrice ha occupato tutto,
Città e campagne! – Saremo schiacciati!
I vulcani salteranno! e l’oceano colpito…
Oh! amici miei! – mio cuore, è certo, son fratelli:
Neri sconosciuti, se solo andassimo! andiamo! andiamo!
O sventura! mi sento fremere, la vecchia terra,
Su di me sempre più vostro! la terra si scioglie,
Non è niente! sono qui! sono sempre qui.
Nell’ultima
parte della poesia Rimbaud sembra quasi destarsi da un sogno. Il
poeta-veggente, forse, iniziava già a intravedere la direzione che
avrebbe presto imboccato la sua esistenza: una completa abnegazione
nell’attività lavorativa e il definitivo ripudio della poesia e di
quelle velleità ribelli che fino ai diciannove anni lo avevano
fermamente convinto occorresse changer la vie,
cambiare la vita. Anche il ventiseienne Jim Morrison, un anno prima di
morire, aveva abbandonato i suoi slanci sovversivi ripiegando su un più
mite buonsenso. In un’intervista radiofonica rilasciata nel maggio 1970
alla CBC disse:
Mantengo un
pessimismo illuminato riguardo alle cose, così non resto deluso quando
non vanno come voglio. Non voglio una rivoluzione. La rivoluzione non è
altro che il passaggio da una corrente all’altra. E io penso che una
rivoluzione in questo paese sarebbe un disastro. Vale ancora la pena di
lottare per gli ideali democratici. Occorre solo cambiare qualche
leader, cambiare qualche legge.
Alla virata
di bordo “ideologica” di Jim Morrison non corrispose tuttavia un
mutamento nel suo rapporto con gli alcolici e con la droga, di cui
continuò ad abusare fino ad esserne stroncato. Tuttavia non smise mai di
scrivere: nel corso dell’ultimo soggiorno a Parigi componeva poesie e
prendeva appunti sulle peregrinazioni nel Marais, il vecchio quartiere
in cui alloggiava. Rimbaud, al contrario, rinnegò tutti i suoi trascorsi
da alcolizzato e tagliò i ponti anche con la letteratura, spiegando ad
amici esterrefatti che “comprare libri è del tutto idiota, i libri sono
buoni solo a mascherare la fatiscenza dei vecchi muri”. L’affinità fra i
due artisti ha continuato ad essere alimentata dalle voci, iniziate a
serpeggiare dopo il decesso, secondo cui Jim Morrison avesse in realtà
inscenato la sua morte e fosse andato segretamente a vivere in Africa
seguendo le orme del suo leggendario predecessore.
Arthur
Rimbaud – come anche tutti gli altri “poeti maledetti” riuniti da Paul
Verlaine nell’omonima antologia – ha avuto un’enorme influenza in ogni
direzione, dalla narrativa alla semiotica, dalle arti figurative alla
musica. La sua vita scandalosa e beffarda e i suoi versi diabolicamente
ambigui, pregni di intuizioni mistiche e abbandoni estatici, hanno
frantumato in una manciata d’anni secoli e secoli di convenzioni
letterarie e sociali. Jim Morrison, suo erede spirituale, colse
pienamente quello spirito reprobo continuando a far tuonare, nel suo
breve transito terreno, i fulgidi bagliori della dissidenza contro i
valori borghesi e l’ipocrisia della morale corrente.
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